Meduse: “signore dei mari” tra mito, pregiudizi e ricerca

Quello degli scifozoi è un mondo di meraviglia e fascinoso pericolo, eppure qualche elemento di conoscenza dovrebbe farcelo apprezzare di più.

di Alberto Piastrellini

Ogni anno, d’estate, rappresentano l’incubo dei bagnanti, capaci come sono di trasformare una bella giornata al mare in ore d’ansia – per lo più immotivata, ma tant’è – e una salutare nuotata in una sorta di percorso ad ostacoli: sono le meduse.

Animali curiosi e affascinanti, il cui nome evoca il Mito greco della Gorgone, solo in taluni casi realmente e tragicamente pericolosi per la salute umana (la Chironex fleckeri miete diverse vittime in Australia ogni anno e la Cyanea capillata per la sua fosca fama è stata scelta da Sir Arthur Conan Doyle quale protagonista “dark” per un racconto di Sherlock Holmes), le meduse sono un esempio tangibile di quella “creatività” che l’evoluzione della vita ha prodotto sul nostro pianeta con risultati così stupefacenti da sembrare quasi “alieni”.

Innanzi tutto, e non è cosa da poco, sono presenti nei mari del mondo da più di 500 milioni di anni e possono vantare, quindi una storia evolutiva di tutto rispetto; mica male per forme viventi costituite per la gran parte di semplice acqua (98%)! E tuttavia che meraviglia di organizzazione in quella poca massa di materia vivente!

Apparentemente la loro fisiologia è molto semplice, tutte le forme delle meduse, infatti, sono riconducibili ad una specie di “sacchetto rovesciato” i cui margini inferiori sono ripiegati su loro stessi a formare una cavità interna rivestita che sfocia in un canale orale che ha la medesima funzione di bocca e ano. Dal margine superiore del “sacchetto rovesciato” si prolungano i tentacoli – o filamenti pescatori – che hanno funzione predatoria e difensiva.

E qui scatta la meraviglia, perché, con le meduse, la Natura si è veramente sbizzarrita a creare microscopiche “armi” biologiche talmente efficaci nella loro semplicità da sfidare il Tempo.
Quando si incappa nei tentacoli di una medusa si avvertono sensazioni che vanno dal prurito all’intenso bruciore e tutto questo è provocato da un meccanismo cellulare raffinato proprio all’interno del grande Phylum dei cnidari (che comprende: attinie, idrozoi, coralli e, appunto, meduse).

La superficie dei loro tentacoli è ricoperta da cellule particolari, gli cnidociti: queste sono a tutti gli effetti delle “armi a colpo unico” e pertanto devono essere rigenerate continuamente. Tali cellule hanno all’esterno un microscopico ciglio (cnidae) che funge da “innesco”: quanto lo cnidociglio viene sollecitato fa scattare l’estroflessione di un filamento normalmente immerso in un liquido urticante; una sorta di microscopico “arpione” che inietta un cocktail di sostanze capaci di paralizzare, stordire o uccidere la preda che verrà mangiata.

In effetti quando si è “punti” da una medusa, di fatto, si è “arpionati” da centinaia di migliaia di nematocisti “sparati” meccanicamente e senza alcun controllo da parte della medusa stessa.

Ma le meraviglie delle meduse (scifozoi e cubozoi per essere più precisi) non si esauriscono qui: la loro riproduzione, in molti casi, avviene in parte attraverso uno scambio di gameti (sessuata), in parte in maniera asessuata; la larva generata dalla fecondazione si fissa al substrato e si trasforma in un individuo polipoide simile ad una minuscola attinia che, successivamente si divide per strobilazione in tanti individui medusoidi che cresceranno sino a diventare adulti.

E se si pensa che le meduse più evolute (cubozoi) hanno pure dei fotorecettori collegati ad un rudimentale organo di orientamento ecco che quei fastidiosi esseri gelatinosi cominciano a diventare meno “cose” e più animali.

Certo, quando si è punti si pensa solo al fastidio e al dolore provocato e non tanto alla stupefacente “fantasia” dell’evoluzione che ha prodotto tali strategie di caccia, tuttavia conoscere con cosa e con chi si ha a che fare, può essere un modo diverso per approcciarsi alla vita marina e alle sue tante manifestazioni, alcune certo, realmente pericolose, altre meno.

E allora facciamo una piccola carrellata, assolutamente non esaustiva, delle specie di meduse che possiamo incontrare comunemente dall’Adriatico al Tirreno.

Pelagia Noctiluca, medusa piuttosto comune nel Mediterraneo e tristemente nota per le dolorose punture che infligge. Di solito è presente molto al largo e in profondità però, alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90 vi sono state vistose “fioriture” anche sotto costa.

Pelagia Noctiluca

Chrysaora hysoscella, medusa di una certa dimensione (anche 40 cm) dalle abitudini pelagiche, come la precedente. Molto raramente si avvista presso le coste. La sua colorazione dorata con l’ombrello suddiviso in fasce marroni con un suggestivo disegno tigrato la rendono facilmente identificabile in mare aperto. Come per la “vicina” Pelagia noctiluca, il suo contatto non si dimentica facilmente.

Aurelia aurita, detta “medusa quadrifoglio” per via del disegno formato dagli organi riproduttivi. Il suo ombrello che può raggiungere dimensioni notevoli (anche 40 cm) è trasparente e i suoi tentacoli poco urticanti sono cortissimi. Spesso si ammassa sulle spiagge a tarda primavera.

Aurelia aurita

Rhizostoma pulmo, chiamata anche “polmone di mare” per via del movimento pulsante apparentemente “respiratorio” questa medusa impressiona i bagnanti per le dimensioni notevoli (può arrivare a pesare anche 10 Kg) e per la colorazione violetta che caratterizza il margine inferiore dell’ombrella. Non è particolarmente urticante ma i suoi tentacoli corti e tozzi fanno una certa impressione. Spesso è accompagnata da diversi pesciolini che si difendono dai predatori nascondendosi fra i suoi tentacoli.

Rhizostoma pulmo

Cotylorhiza tuberculata, specie molto comune in Mediterraneo, bellissima da vedere per il suo colore bruno dorato, le dimensioni ragguardevoli e la presenza di tantissime braccia-orali terminanti in una piccola pallina violetta. Spesso forma banchi di estese dimensioni. Non è urticante se non per pelli estremamente delicate.

Cotylorhiza tuberculata

Carybdea marsupialis è la cubomedusa dei nostri mari, piccola rispetto alla sua “parente” australiana Chironex fleckeri (che può essere mortale!) eppure le sue punture sono dolorose. Sono attratte dalla luce e di notte tendono ad avvicinarsi alle rive ove si riflettono le luci di chalet, lungomari e riviere.

Quando guardiamo con fastidio a queste strane creature assolutamente inconsapevoli del fatto che ci stanno rovinando le vacanze dovremmo pensare che siamo noi stessi, con i nostri comportamenti, ad averne favorito l’esplosione demografica.
Le meduse in mare ci sono da sempre e come tutte le specie viventi il loro numero è sempre stato regolato dall’equilibrio naturale e dalla competizione fra predatori.

Quando questo equilibrio si rompe – e nei nostri mari si è rotto da un pezzo – accade che una specie o più specie trovino le condizioni ideali per proliferare a danno di qualcuno.
Nel caso delle meduse l’associazione tra: impoverimento dei predatori naturali (tartarughe, delfini e diverse specie di pesci), aumento dello zooplancton e impoverimento della quantità di ossigeno disponibile, senza contare l’aumento della temperatura media dei mari causata dal riscaldamento globale e l’assist fornito dall’uomo che ha creato, ad esempio in Adriatico con le diverse scogliere artificiali, nuovi substrati ove gli individui polipoidi possono agevolmente svilupparsi, ha determinato quell’aumento di individui che si può osservare ogni estate.

Né si creda che l’inquinamento eccessivo o l’acidificazione degli oceani sia un gran problema per animali che si sono evoluti in un periodo della storia terrestre in cui le condizioni climatiche erano ben lungi da quelle delle ultime migliaia di anni, anzi!
Tant’è che parecchi ricercatori stanno seriamente pensando ad uno sfruttamento alimentare di questa biomassa il cui trend è in crescita nei mari del globo: Cina e Giappone, ad esempio, sono già consumatori entusiasti.

Strane, antichissime, diafane e fluttuanti “signore dei mari”, le meduse possono anche uccidere (alcune), eppure, curioso paradosso, almeno una specie fra queste ha trovato il segreto dell’immortalità: la piccola e anonima Turritopsis nutricula giunta a maturazione è in grado di invertire il proprio ciclo e ricominciare da capo!
Un meccanismo osservato dagli scienziati che stanno cercando di capirlo e carpirlo.

Altro che cosmetica, qui si spalanca un mondo di possibilità… e tutto questo è racchiuso in una semplice medusa.




Acquario: la meraviglia del mondo subacqueo in casa

Un angolo di natura da approcciare con competenza e preparazione nel rispetto degli animali e delle piante ospiti

Di Alberto Piastrellini

Nella ricerca, spesso dettata da ridicole mode che a distanza di tempo spingono verso questa o quella razza di cane o di gatto nella scelta per il proprio animale domestico che, in molti casi, purtroppo, sfocia in una manifestazione di status symbol piuttosto che nella semplice esigenza di affezione e compagnia, da qualche decennio, complice la riduzione dei costi di acquisto, si è sempre più affermato il piacere verso l’acquario e l’acquariologia.

L’acquario, tanto quello marino (molto impegnativo), quanto quello di acqua dolce (mediamente impegnativo e comunque più abbordabile per i neofiti), ha l’indiscutibile appeal di portare in casa non solo qualche animale da osservare (l’interazione, in questi casi è oggettivamente limitata), ma, nella sua forma più corretta, tutto un piccolo ambiente naturale funzionale al benessere dell’animale stesso e delle diverse specie coinvolte.

Acquariofili appassionati e studiosi dilettanti, si divertono, in questo senso, a ricreare nel piccolo habitat specifici che ricalcano le caratteristiche di singoli laghi o fiumi con tutta la relativa ricchezza delle specie coinvolte.

L’acquario consente, quindi, un’osservazione privilegiata di fenomeni naturali e dei comportamenti animali normalmente “nascosti” alla vista dei più se si esclude la pratica della subacquea ricreativa e della ricerca specifica.

Acquario:foto coppia Scalari

Ma non solo, osservare un acquario è sempre un’esperienza stimolante e allo stesso tempo rilassante: forme e colori di pesci ed invertebrati stuzzicano la fantasia e la curiosità mentre il movimento degli animali nell’acqua induce un senso quasi ipnotico di pace e di relax.

Non a caso, già da tempo studi di medici, dentisti, psicologi e psicoterapeuti, ospitano acquari nelle sale d’attesa ove i pazienti possono decomprimere le loro ansie. Il senso della vista, poi, non è l’unico ad esserne stimolato perché, anche in un semplice acquario domestico la pompa del filtro provoca un caratteristico gorgoglìo che porta in casa la voce dell’acqua.

Senza contare che, già solo per questo motivi, l’acquario si presta ad essere un punto focale nell’arredamento di una stanza, una presenza dominante in qualsiasi scelta di allestimento degli spazi abitativi, capace di attrarre l’attenzione degli ospiti tanto quanto un pezzo di antiquariato o di ricercato design contemporaneo.

Un mood, questo, che ha spinto molti produttori a immettere nel mercato vasche dalle forme e dai profili insoliti che purtroppo rispondono più alle esigenze estetiche degli acquirenti che a quelle degli organismi viventi che vi verranno ospitati.

Proprio su questi ultimi e sulle loro necessità bisognerebbe riflettere con cognizione di causa prima di imbarcarsi nell’avventura di acquistare un acquario.

Il basso costo di acquisto di certe specie (ma ve ne sono alcune decisamente più onerose per le quali le attenzioni sono decisamente maggiori) non deve farci dimenticare che ci si approccia ad esseri viventi e non semplici guizzi colorati che sfrecciano qua e là continuamente sacrificabili sull’altare del capriccio e della noncuranza.

Ogni specie di pesce ha le sue caratteristiche esigenze in termini di habitat: temperatura, durezza, salinità e tutte le altre caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua; ciclo luce/buio, e presenza di piante specifiche o di altri organismi, senza contare lo spazio a disposizione per ogni singolo individuo, del quale, peraltro, va sempre valutata l’alimentazione e il comportamento

Sovrappopolare un acquario solo per esigenze estetiche significa condannare gli animali ad uno stress continuo che ne minerà la salute complessiva rendendoli più vulnerabili a patologie ed infezioni, senza contare il naturale aumento dell’aggressività anche in specie normalmente tranquille e la possibilità di alterare in breve l’equilibrio chimico dell’acqua, cosa che comprometterebbe in tempi rapidissimi la sopravvivenza dell’acquario stesso.

E se in rete si vedono foto meravigliosamente invitanti di acquari scenografici ricchi di vita e di piante rigogliose come foreste incantate, attenzione! Per arrivare a quei livelli occorrono lunga esperienza, conoscenze specifiche, estrema consapevolezza delle scelte, nonché tanto tempo e tanta tecnologia a disposizione affiancata da una buona dose di maniacalità che sfocia nell’arte.

Dunque, l’acquario è cosa per pochi?
Certamente no, però bisognerebbe sempre approcciarsi alla pratica acquariofila con lo stesso rispetto e la stessa cura che si dedicano ad altri animali di affezione a noi più vicini evolutivamente parlando; tenendo presente altresì che mentre molti piccoli pesci di acqua dolce sono frutto di allevamento i magnifici esemplari di barriera corallina possono essere frutto di catture in loco che vanno a depauperare un ambiente fragile già minacciato da inquinamento, variazioni climatiche, pratiche di pesca estrema e altre attività umane.

Perdersi fra gli anfratti di rocce e tronchetti contorti in un tripudio di verde dalle mille tonalità dove guizzano minuscole forme di vita non è meno affascinante che ricreare forzosamente in salotto un angolo di reef con tutto quel che ne consegue in termini di costo di mantenimento, spazio e acquisto del materiale.

L’importante è tener sempre presente che si avrà a che fare con esseri viventi, che meritano tutto il rispetto (e perché no), l’affetto di chi ha deciso, responsabilmente, di prendersi cura di loro.

Acquario: foto invertrebati

Con questo approccio, anche un piccolo acquario da una cinquantina di litri, può dare grandi soddisfazioni ad adulti grandi e piccini (appositamente guidati ed educati) e dare una vita dignitosa ad animali nati e cresciuti in cattività.

È sempre molto bello poter portare un angolo di natura in casa e proprio il piacere che questo ci dà non dovrebbe mai farci dimenticare il rispetto che dobbiamo a tutti gli altri coinquilini del pianeta: oggi più che mai.  




Microplastiche: come si formano, dove stanno, che fine fanno

Lo stato di salute dei mari ci fa riflettere sull’uso di prodotti cosmetici, tessili ed imballaggi che contribuiscono alla produzione di rifiuti che spesso, poi, ci tornano sul piatto.

Di Eleonora Sbaffi

 

Si sente sempre più spesso parlare del problema delle microplastiche, disperse soprattutto in mare, causa di effetti nocivi sull’ambiente e, forse, sulla salute dell’uomo.

Ma com’è nato il fenomeno e perché ha raggiunto tali dimensioni da costituire un’allerta globale?

 

La microplastica è quel materiale eterogeneo e microscopico che si trova in sospensione nei mari del mondo. Deriva dalla frantumazione di pezzi più grandi di plastica galleggiante causata dal moto ondoso, dall’attrito con delle rocce e dall’azione dei raggi UV del sole. Questo materiale che non si biodegrada, spesso si raggruppa in grandi “isole” che prima o poi affondano e si sbriciolano, col tempo, in minuscole particelle.

 

A questo punto entrano nella catena alimentare, ingerite dapprima da microorganismi che a loro volta sono mangiati da predatori sempre più grandi, fino ad arrivare ai pesci che consumiamo come alimento.

 

Ma non è solo la nostra incuria nella gestione dei rifiuti a creare i presupposti delle microplastiche in mare. Molte ci arrivano attraverso vie più dirette; ad esempio, quelle che si trovano all’interno delle creme esfolianti e in certi prodotti cosmetici come glitter e scrub… che contengono microsfere e chip in polietilene.

 

Le microplastiche nei prodotti cosmetici

Questo materiale è presente in quantità considerevoli nella maggior parte dei prodotti che usiamo per la cura del nostro corpo; un articolo apparso su “La Stampa” afferma che solo in Italia ci sono 37 aziende che producono ben 81 prodotti che contengono plastica e che vengono venduti come naturali.

Parliamo di docciascrub, creme esfolianti ma anche dentifrici. Il problema nasce dal fatto che i filtri degli scarichi delle nostre case non trattengono questa microplastica che, quindi, finisce in mare.

 

Un articolo sul sito di Skytg24, ricorda quanto materiale ognuno di noi riversa in mare usando questi prodotti: 100 mila particelle versate da docciascrub e ancora, 74 tonnellate provenienti dai soli dentifrici. Le creme esfolianti invece, contengono 750 mila particelle di microplastica in un solo flacone da 250 ml. Si pensi solo a moltiplicare queste quantità per i miliardi di prodotti venduti giornalmente!

 

Ognuno può verificare se i prodotti che acquista contengono microplastiche, controllando se nell’INCI (l’etichetta degli ingredienti di un prodotto) viene citata la parola “polietilene”.

A questo punto è la consapevolezza del consumatore che fa la differenza.

 

L’Italia, che è il produttore del 60% del make-up mondiale, ha già cominciato il cammino per la riduzione di plastica inutile nella cosmetica, ad esempio fermando la produzione di bastoncini per la pulizia delle orecchie non biodegradabili, e sta lavorando per eliminare le microplastiche nei cosmetici.

 

Una nota catena della grande Distribuzione sta già pubblicizzando come nei prodotti cosmetici commercializzati col suo marchio non sono presenti microplastiche.

 

Anche l’abbigliamento ha le sue responsabilità.

La maggior parte di abiti che indossiamo, i cosiddetti capi sintetici, pratici ed economici, sono prodotti con fibre provenienti anche da materiale riciclato, apparentemente una buona pratica di riciclo, ma poi ci si è accorti di un problema: dopo diversi lavaggi, le microfibre si sfilacciano e rimangono nell’acqua di lavaggio; i filtri che montano gli elettrodomestici non sono però in grado di trattenere questi filamenti sintetici che quindi finiscono in mare. È difficile calcolare quante microfibre plastiche ognuno di noi riversa in mare…e siamo 7 miliardi e mezzo di persone!

 

Alimentazione e salute: i rischi delle microplastiche

E a livello alimentare? Quanto siamo esposti a questo tipo di materiali?

L’alimento più contaminato dalla plastica è il pesce, che ingerisce le microparticelle attraverso la catena alimentare. Se, nel caso dei pesci, tendiamo a scartare l’apparato digerente ove si accumulano le maggiori quantità, questo non avviene quando assumiamo l’animale intero, come nel caso dei molluschi (cozze, vongole, patelle, ostriche…) o crostacei (granchi, aragoste, canocchie…).

 

Anche il sale e il miele però sono alimenti contaminati da microplastiche. Un articolo de “Il fatto alimentare” ci informa della presenza di microplastiche nel miele ma non come esse ci siano effettivamente arrivate. Diverse sono le opinioni a riguardo: alcuni sostengono l’ipotesi che derivino dal processo produttivo, altri dicono siano già presenti nei fiori, nel polline e nel nettare, dove pervengono o dal vento o dall’acqua piovana.

Per quanto riguarda il sale marino il campione esaminato in Italia da Greenpeace risulta positivo al test delle microplastiche, come anche altri 36 campioni di 39 prelevati in tutto il mondo.

 

Microplastiche nell’acqua in bottiglia?

Una ricerca apparsa su “La Repubblica” ha verificato la contaminazione da plastica trovata in 242 su 259 bottiglie di acqua prese in esame. L’inquinamento da plastica sarebbe avvenuto nel momento dell’apertura del tappo. Quindi anche l’acqua che beviamo quotidianamente contiene microplastica.

 

Quali sono i rischi a questa esposizione? Come possiamo limitarli?

Vista la recente scoperta del fenomeno, non esistono studi certi che provino gli effetti a lungo termine da esposizione alle microplastiche, sulla nostra salute.

Ma certamente il principio di prudenza ci dovrebbe spingere a prevenire utilizzando contenitori di vetro piuttosto che di plastica, per conservare i cibi, e utilizzare prodotti freschi invece che quelli confezionati o troppo imballati.

Non sottovalutiamo questo fenomeno che ancora non conosciamo abbastanza e che del quale, soprattutto, non siamo certi degli effetti sulla nostra salute.