GEA, LA DEA PRIMORDIALE DELLA TERRA

Nella mitologia greca, Gea occupa un ruolo centrale come la dea primordiale della Terra. 

Chi era Gea

Conosciuta anche come Gaia, questa figura atavica, rappresentava l’essenza stessa della terra, della fertilità e della maternità. Il suo mito e la sua importanza permeavano molte delle narrazioni greche, fornendo un fondamento primordiale su cui si basano molte altre divinità e storie mitologiche.

Gea emerge dalle tenebre primordiali insieme con altre divinità come Eros (l’amore) e Caos (il vuoto arcaico). 

Secondo alcuni racconti mitologici, Gea è figlia di Caos, mentre secondo altri si è auto-generata, rappresentando l’origine stessa della vita e della terra.

Era considerata la madre di tutto ciò che esiste, poiché creò molte delle divinità olimpiche e ha sostenuto la creazione del mondo.

Gea come personificazione della Terra rappresentava la fertilità, la crescita e la prosperità del nostro pianeta. I suoi simboli includono il suolo, i campi fertili, i fiumi e le montagne.

Era spesso rappresentata come una donna materna, avvolta nella terra stessa o coronata di fiori e frutti. Le sue connessioni spirituali con la natura e la terra, la rendeva una figura venerata e rispettata da tutti i greci antichi.

Gea era la madre di numerosi Dei, inclusi i Titani, le divinità primordiali e i mostri.

Tra i suoi figli più noti vi sono: Urano (il cielo stellato), Pontos (il mare) e le Dodici Titanidi, tra cui Rea, Temi e Mnemosine. Il suo legame con Urano, il cui nome significa “cielo”, simboleggia l’unione della terra e del cielo, che generano la vita stessa.

Mito, leggende e culto di Gea

La figura di Gea è presente in molti miti greci. Uno dei racconti più famosi è la sua ribellione contro il marito Urano, che la nascondeva dai suoi figli.

Gea incitò i suoi figli Titani a ribellarsi contro Urano, conducendo alla castrazione del marito da parte del figlio Crono, che diventò il nuovo signore degli Dei.

Un altro mito celebre è quello della nascita di Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza, che nacque dallo sperma di Urano caduto nel mare dopo la sua castrazione. 

Gea, in questo racconto, è la madre che partecipa attivamente alla creazione di una delle divinità più affascinanti e influenti del pantheon greco.

Nell’antica Grecia, Gea era venerata come una delle divinità più antiche e potenti. 

I suoi templi erano sparsi per tutta la Grecia, e i suoi riti erano legati alla fertilità della terra e al ciclo delle stagioni agricole. La sua venerazione rifletteva la profonda connessione spirituale che gli antichi greci avevano con la natura e la terra, elementi fondamentali per la loro sopravvivenza e prosperità.

Gea rappresentava non solo la terra fisica su cui vivono tutti gli esseri umani ma anche l’essenza stessa della maternità e della fertilità che sostiene la vita. Il suo mito continua a ispirare artisti, poeti e pensatori moderni, rimanendo una figura iconica nella mitologia e nella cultura greca. La sua storia ci ricorda l’importanza di onorare e rispettare la terra e di riconoscere la sua sacralità nella nostra vita quotidiana.

Gea e la Storia dell’Arte

Ci sono diverse rappresentazioni artistiche di Gea in Storia dell’Arte, poiché la dea è la personificazione della Terra nella mitologia greca e, quindi, le sue raffigurazioni spesso riflettono elementi naturali e materni.

Gli antichi greci la rappresentarono in due diversi modi: nelle ceramiche e nei vasi, fu raffigurata come una donna matura e matronale che emergeva a metà dal terreno, spesso mentre porgeva alla dea Athena un bambino.

L’altro modo di rappresentarla, specialmente nei mosaici, era quello di una dea stesa in terra, circondata da divinità infantili che rappresentano i frutti della terra.

L’episodio della castrazione di Urano è visibile come affresco qui in Italia, precisamente a Firenze, nella splendida cornice di Palazzo Vecchio, nella Sala degli Elementi.

Giorgio Vasari, l’artista, che lo dipinse nel XVI secolo, raffigura Crono (Saturno per la mitologia romana) di spalle che con una lunga falce evira il padre Urano.

In epoca moderna, il pittore tedesco Anselm Feuerbach, esponente della pittura neoclassica tedesca del XIX secolo, dipinse nel 1875, una materna Gea, dai fianchi possenti, nuda e avvolta di spalle in uno svolazzante mantello tenuto per un lembo da un amorino.

La scena è ambientata in volo e in basso a sinistra intravede il pianeta Terra.

Questo quadro si può ammirare a Vienna, all’Accademia di Belle Arti.

Nel nostro XXI secolo, le rappresentazioni di Gea s’intrecciano con quelle di Madre natura, e diversi pittori, grafici e illustratori digitali, rappresentano una dea Gea moderna come una bella donna, vestita con elementi naturali come fiori, foglie, alberi, fiumi, montagne.

Spesso con il pianeta Terra fra le mani.

Una figura grafica stilizzata molto famosa è quella di rappresentare Gea con lunghi capelli al vento, come una donna incinta e il suo ventre è proprio il pianeta Terra

Queste sono solo alcune delle molte opere d’arte che rappresentano Gea o s’ispirano alla sua figura mitologica. Le sue rappresentazioni artistiche moderne, spesso riflettono la sua natura materna, la sua fertilità e la connessione con la terra e la natura.

By Rosa Maria Garofalo




ECO, LA NINFA PUNITA DA GIUNONE

Ninfa della mitologia greca faceva parte delle Oreadi, le ninfe delle montagne.

Chi era Eco

Eco era una bellissima ninfa delle montagne, un’Oreade.

Figlie di Gea la Terra, le Oreadi erano nate per partenogenesi ed erano associate al culto di Artemide, dea della caccia.

Il poeta latino Ovidio, nelle sue Le Metamorfosi ci narra che Eco, con le sue chiacchiere o pettegolezzi tratteneva Giunone, moglie di Giove, impedendole di scoprire gli incontri amorosi del marito con le altre donne, mortali oppure divinità.

Naturalmente, dietro c’era la mano di Giove che usò l’indole di Eco per i suoi scopi: nascondere le sue scappatelle alla consorte.

Adirata Giunone, invece di prendersela con il marito, punì Eco in maniera brutale, come di solito le donne sono capaci di fare nei confronti di altre donne, cioè la rese incapace di parlare per prima e la obbligò a ripetere le ultime parole di ciò che udiva.

Condannata in questo modo, la vita per Eco si complicò notevolmente, soprattutto quando s’innamorò perdutamente di Narciso.

Narciso era un giovane cacciatore famoso per la sua bellezza e altrettanto famoso per la sua disumanità, infatti, disdegnava tutte le donne che s’innamoravano di lui.

Eco, impossibilitata a dichiarare il suo amore a Narciso, ripeteva solo le ultime parole che egli pronunciava, tanto che alla fine lui si sentì preso in giro, come se fosse tutto uno scherzo e adirato e stizzito la piantò in asso.

Eco disperata pianse tutte le sue lacrime fino a consumarsi letteralmente d’amore e di lei non rimase che la sua voce, riecheggiante sulle montagne come un eco.

La dea Nemesi, per renderle giustizia, portò il bellissimo Narciso davanti a dei piccoli specchi d’acqua dove il giovane rispecchiandosi, vide un ragazzo talmente bello da innamorarsene perdutamente all’istante e senza mangiare e bere per giorni, alla fine morì.

Zeus lo trasformò in un bellissimo fiore dalla corolla bianca, il narciso.

Il mito della ninfa Eco in Storia dell’Arte

Il mito di Eco ha ispirato diversi pittori, specialmente la vicenda del suo amore non corrisposto per il bellissimo Narciso.

Una sgomenta e solitaria Eco è rappresentata dal pittore francese Alexandre Cabanel, un dipinto datato 1874, che si può ammirare al Metropolitam Museum di New York.

Cabanel ha dipinto una sensuale e seminuda Eco, terrorizzata perché non riesce a parlare, ma solo a ripetere le ultime parole pronunciate da altri in lontananza.

Il pittore preraffaellita John William Waterhouse nel 1903 ha dipinto Eco e Narciso ispirato all’omonimo episodio narrato da Ovidio.

Una triste e sconsolata Eco osserva affranta il suo amato che, specchiandosi in una pozza d’acqua, ammira con infinito amore la sua immagine riflessa.

La vicenda è ambientata in una bucolica atmosfera campestre alla maniera dei Preraffaelliti.

Il quadro in oggetto si trova alla Walker Art Gallery di Liverpool in Gran Bretagna.

Il pittore francese Nicolas Poussin nel 1637 ha dipinto Eco e Narciso, il quadro si trova al Louvre di Parigi.

L’artista, in un paesaggio idilliaco ha illustrato il mito di Eco e Narciso rappresentando tre personaggi: Narciso, Eco e il dio Eros.

In primo piano sdraiato per terra il bellissimo Narciso dormiente, con alcuni fiori bianchi sboccianti tra i capelli, i narcisi che da lui prenderanno il nome.

A sinistra la bella Eco appoggiata a una roccia, sconsolata osserva il suo amore che dorme, consapevole che non sarà mai suo e infine a destra il dio dell’amore Eros, rappresentato come un angioletto.

Egli tiene in mano una torcia, simbolo di morte.

La scena raffigura quindi un dramma: l’amore non corrisposto che distruggerà fisicamente la bella ninfa Eco portandola alla morte.

Pure il suo amato Narciso morirà, consumato dall’amore verso la sua immagine riflessa nell’acqua.

By Rosa Maria Garofalo




IL MITO DELLE ARPIE

Le Arpie sono esseri mostruosi con il viso di donna e il resto del corpo come uccelli rapaci. 

Chi erano le Arpie

Le Arpie sono esseri mitologici della cultura e mitologia greca, furono riprese come mito anche dal poeta latino Virgilio, da Dante Alighieri nella sua Divina Commedia e pure dall’Ariosto.

Omero le cita nell’Odissea nel libro XX. 

Gli antichi Greci le hanno immaginate in origine come donne alate, poi divennero mostri con testa, braccia e busto umani, il resto come uccelli rapaci.

In epoche successive, si trasformarono ancora e rimasero solo il viso e il busto di donna, ma tutto il resto del corpo prese forma di uccello rapace con grandi ali e artigli lunghi e ricurvi; persero anche la loro bellezza e divennero orrende. 

Il loro nome Arpie significa letteralmente le rapitrici.

Si conoscono i loro nomi: Aellobufera”, Ocipetecolei che vola rapido” e Celenol’oscura”.

Erano figlie di Taumante e della ninfa Elettra, avevano anche un’altra sorella, una bellissima dea di nome Iride.

La ninfa Elettra, figlia del dio Oceano e della titanide Teti, era anch’essa un personaggio mitologico e l’ambra era la pietra dedicata al suo culto.

Le Arpie erano localizzate nel Giardino delle Esperidi, poi nelle isole Strofadi perché cacciate dal re tracio Fineo che esse perseguitavano.

Fineo era un indovino oltre ad essere un re ed era cieco per punizione divina e le Arpie gli portavano via il cibo dalla tavola sporcando tutto con i loro escrementi.

Come afferma il significato del loro nome, rapivano e trasportavano nell’Ade le anime dei morti.

Spesso però portavano nell’aldilà anche i viventi dopo averli ghermiti con violenza, li consegnavano ad altre terribili divinità infernali: le Erinni.

Le Arpie erano utilizzate dagli dei per gli scopi più disparati.

L’arpia Aello ad esempio era impiegata dagli dei dell’Olimpo per assegnare le giuste punizioni per i crimini commessi dagli uomini.

A volte era anche usata per imporre la pace.

Prima di diventare mostruosa Aello era una bellissima fanciulla alata, poi divenne un mostro alato con il viso di una megera, la parte inferiore di uccello rapace con artigli appuntiti e ricurvi.

Le Arpie e la Storia dell’Arte

Le Arpie essendo mostruose non hanno ispirato molto la Storia dell’Arte.

Invece hanno ispirato tutto il mondo del Fantasy, dei fumetti manga e della grafica moderna.

Le raffigurazioni più antiche, dove hanno ancora una forma umana con le ali, le troviamo sui vasi greci.

A Malibu, USA, all’J. Paul Getty Museum si trova un grande vaso greco con figure rosse su sfondo nero e rappresenta il re Fineo e le tre Arpie.

Il grande illustratore francese Gustave Dorè, famoso per aver illustrato nel 1885 una splendida edizione della Divina Commedia di Dante Alighieri, ha raffigurato in bianco e nero le Arpie nell’Inferno Canto XIII dove esse rompono i rami e mangiano le foglie degli alberi al cui interno si trovano le anime dei suicidi, che in questo modo provano dolore e hanno delle fessure attraverso le quali lamentarsi.

Mary Pownall, una scultrice britannica, nel 1902 scolpì nel marmo l’Arpia Celeno detta l’Oscura.

Era la più nota delle tre Arpie poiché il poeta Virgilio la cita per nome nell’Eneide.

Questa statua si trova a Glasgow UK, al Kelvingrove Art Gallery and Museum.

Nelle illustrazioni moderne del Fantasy, le Arpie sono rappresentate come esseri mostruosi, oppure come bellissime e giovani donne, per metà umane e per l’altra parte come uccelli rapaci. 

Il mito delle Arpie sopravvive ancora oggi nella lingua parlata, infatti, si usa il termine arpia in senso spregiativo, nei confronti di chi, uomo o donna, è una persona avida, rapace e cattiva, di animo malvagio.

By Rosa Maria Garofalo




CASSANDRA, UNA DONNA INASCOLTATA 

Personaggio femminile della mitologia greca, è menzionata da Omero sia nell’Iliade, sia nell’Odissea.

Chi era Cassandra

Cassandra era una principessa troiana, figlia primogenita, insieme al fratello gemello Eleno, del re Priamo e della regina Eucuba.

Era una sacerdotessa del dio Apollo cui era stata donata dal dio stesso la facoltà della preveggenza.

Profetizzò delle terribili sventure sulla città di Troia e di conseguenza era invisa a molti che non volevano essere turbati dalle sue profezie.

Ci sono diverse versioni sulle capacità divinatorie di Cassandra, alcune tradizioni orali fanno iniziare la sua preveggenza fin da bambina, altri in età più adulta.

Fin da bambina, a quanto pare secondo queste versioni del mito, ebbe capacità divinatorie e predisse che il fratello secondogenito Paride avrebbe causato la distruzione di Troia.

Invece un’altra di queste versioni, ci informa che Apollo, oltre ad averle donato la capacità di profetizzare, le aveva anche offerto il suo amore ma Cassandra lo rifiutò e il dio per punirla la maledisse e fece in modo che nessuno credesse più alle sue profezie.

I suoi genitori erano dubbiosi, però fecero crescere Paride lontano dalla città e dalla famiglia reale.

Paride una volta adulto, ritornò in città e la sorella Cassandra lo riconobbe e chiese ai suoi genitori e ai suoi fratelli (il re Priamo ebbe numerosi figli dalle altre mogli e concubine) di uccidere Paride altrimenti Troia sarebbe stata distrutta.

Nessuno la ascoltò e Paride riprese il suo posto nella famiglia reale come un principe.

Cassandra predisse altri guai in arrivo quando il fratello partì per Sparta, tra cui il rapimento di Elena moglie di Menelao da parte di Paride.

Neppure in questo frangente fu creduta.

A guerra in corso, mise in guardia i troiani dal prendere il cavallo di legno lasciato dai greci e di non portarlo fin dentro le mura di Troia, perché al suo interno vi erano nascosti i soldati greci guidati da Ulisse, altrimenti altre sciagure erano in arrivo e Troia sarebbe caduta in tempi brevissimi.

Solo Lacoonte le credette e si unì alle proteste di Cassandra, ma fu punito da Atena che lo fece uccidere da due enormi serpenti marini insieme ai suoi figli.

Come predetto dall’inascoltata Cassandra, i greci conquistarono Troia e la distrussero col fuoco, massacrando i cittadini troiani e la famiglia reale.

Il re Priamo fu ucciso nei pressi dell’altare del santuario di Zeus, mentre Cassandra si rifugiò nel tempio di Athena per sfuggire ai greci ma Aiace di Locride, conosciuto anche come Aiace d’Oileo, la trovò e la violentò sul posto.

Trascinata via dall’altare dopo lo stupro, Cassandra si aggrappò al Palladio di Athena e Aiace, un uomo violento e miscredente, fece cadere la statua lignea della dea dal suo piedistallo.

Per questo gesto sacrilego, fu maledetto e punito dagli dei, come del resto quasi tutti i principi greci che parteciparono alla guerra di Troia.

Infatti, quasi tutti non fecero un felice ritorno a casa, e lo stesso Aiace morì per mano di Athena e Poseidone.

La triste Cassandra fu portata a Micene e divenne schiava del re Agamennone, in seguito profetizzò la fine di Agamennone per mano della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto, naturalmente il re non le diede ascolto.

Alla fine i due amanti, oltre a uccidere Menelao, assassinarono anche Cassandra.

Nei modi di dire della nostra cultura, dare l’appellativo di Cassandra a qualcuno significa che quest’ultimo rimane inascoltato, pur prevedendo delle calamità che poi puntualmente si avverano.

Cassandra e la Storia dell’Arte

Il mito di Cassandra lo ritroviamo in Storia dell’Arte in quadri e nelle ceramiche greche più antiche.

Non ci sono molte raffigurazioni pittoriche di questo personaggio, benché alcuni artisti ci abbiano lasciato dei quadri.

La pittrice inglese Evelyn De Morgan, appartenente alla corrente Preraffaellita, ha dipinto una disperata Cassandra con lo sguardo vuoto che si strappa i lunghi capelli rossi, alle sue spalle Troia in fiamme distrutta dai greci.

Il quadro datato 1898 si trova al De Morgan Museum, a Barnsley in Inghilterra.

Il pittore britannico Solomon Joseph Solomon nel 1886 ha dipinto un quadro dal titolo Aiace e Cassandra, dove è raffigurato l’episodio del rapimento di Cassandra dopo lo stupro avvenuto presso il tempio di Athena (la dea Minerva per i romani).

Questo quadro si può ammirare in Australia, nella città di Ballarat, nello stato di Victoria al Museo Art Gallery of Ballarat.

Infine, il pittore neoclassico francese Jérôme-Martin Langlois ci ha lasciato un bellissimo e commovente quadro dal titolo Cassandra implora la vendetta di Minerva contro Aiace, del 1810.

Una Cassandra nuda e con le mani legate implora la dea Minerva o Athena di renderle giustizia per lo stupro subito; sullo sfondo un soldato greco sta uccidendo una ragazzina con la madre.

Il quadro si trova in Francia, al Museo di Belle Arti di Chambéry.

By Rosa Maria Garofalo




IL MITO DI SCILLA E CARIDDI

Scilla e Cariddi erano i due terribili mostri marini posti a difesa dello stretto di Messina secondo le antiche tradizioni mitologiche greche e latine.

Chi erano Scilla e Cariddi

Scilla e Cariddi appartengono al corpus della mitologia greca prima e latina poi, e sono entrambe due mostri marini femminili che divoravano uomini e navi lungo lo stretto di Messina, in Sicilia.

Scilla appare nel poema Odissea, nel libro XII, dove la maga Circe consiglia a Ulisse di stare molto attento nella navigazione tra la Trinacria e la costa calabra.

Gli consiglia di stare più vicino a Scilla (costa calabra) e di pregare la madre di Scilla, la ninfa Crateide, affinché la figlia non divorasse la nave di Ulisse.

L’eroe omerico naviga con successo lungo lo stretto fino a quando, distratto da Cariddi, non si avvede che Scilla balza sulla sua nave e divora vivi sei uomini dell’equipaggio.

Secondo la mitologia greca, Scilla era raffigurata come una donna nella parte superiore del corpo mentre la parte inferiore era composta di una muta di sei grossi cani divoratori.

Inoltre, aveva anche più code crestate, com’è raffigurata nei vasi greci e statuette più antiche.

Scilla era figlia di Crateide com’è menzionato nell’Odissea, mentre altri la ritengono figlia del dio marino Forco oppure della dea degli Inferi Ecate.

Nel poema Le Metamorfosi di Ovidio, poeta latino del 1° secolo dopo Cristo, Scilla è presentata come una bellissima ninfa dagli occhi azzurri che viveva in Calabria, trasformata poi in mostro dalla gelosa maga Circe che voleva tutta per se l’innamorato di Scilla.

Cariddi era l’altro mostro marino che infestava le acque dello Stretto di Messina e, prima di essere trasformata in creatura orribile, era una naiade vorace e sempre affamata.

Un giorno rubò a Ercole i buoi di Gerione, li divorò e per questo gesto fu punita da Zeus che la fece cadere in mare trasformandola in un’orrenda creatura marina simile a una lampreda.

I buoi di Gerione erano il bottino della decima fatica di Ercole, quindi il furto e relativo divoramento da parte di Cariddi, costituì un affronto per gli dei dell’Olimpo.

Gli antichi greci e latini non trovando una spiegazione logica agli eventi naturali più strani, chiamavano in causa il soprannaturale e il divino, e cosi le acque turbolente dello Stretto di Messina diventarono acque pericolose infestate da due orribili mostri marini.

Curiosamente, i mostri sono comunemente di sesso femminile e questo dimostra la grande misoginia della cultura greca prima e latina poi.

Ancora oggi nella lingua comune, il mito di Scilla e Cariddi soppravive e il detto “trovarsi tra Scilla e Cariddi” in una situazione, significa che in qualunque modo si è in perdita, o si è divorati da Scilla oppure da Cariddi.

Scilla e Cariddi in Storia dell’Arte

In Storia dell’Arte il mito dei due mostri marini si trova in oggetti di terracotta molto antichi.

Una placchetta in terracotta raffigurante il mostro Scilla del 460-450 a.c. è in mostra al British Museum di Londra; mentre al Louvre di Parigi si trova un cratere greco (vaso) con raffigurata Scilla in rosso su uno sfondo nero.

Nel Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga (in provincia di Latina) e nella sua area archeologica si trova un allestimento scultorio di eccezionale bellezza chiamato La nave di Ulisse.

Questa monumentale opera dell’antica Roma, faceva parte della villa dell’Imperatore Tiberio.

E’ un’opera incompleta e presenta quattro episodi delle avventure di Ulisse tra cui il famoso attacco di Scilla con l’uccisione di sei membri dell’equipaggio.

Sempre a Londra, al British Museum, si trova un disegno a penna del Domenichino, datato 1606/1641, dal titolo Scilla e Cariddi con la nave di Odisseo e la maga Circe.

Il pittore e letterato svizzero Johann Heinrich Füssli ha raffigurato il mito di Scilla e Cariddi in un suo quadro esposto in Svizzera al Museo di Belle Arti di Argovia.

Il dipinto si chiama Odisseo di fronte a Scilla e Cariddi

Il quadro, alla maniera dei Simbolisti, raffigura il drammatico evento in un’atmosfera da incubo avvolto nella nebbia marina dove Ulisse, eroe solitario, si trova a combattere contro i due mostri.

Molti artisti contemporanei hanno raffigurato il mito di Scilla e Cariddi nelle loro opere e questo dimostra come i miti della mitologia classica continuano a vivere fino ai nostri giorni.

By Rosa Maria Garofalo




LE SELKIE

Creature acquatiche della mitologia irlandese, scozzese, islandese.

Le Selkie dette anche Roan fanno parte della mitologia nordica dell’Irlanda, della Scozia, delle isole Fær Øer, e in misura minore anche della Norvegia e dell’Islanda.

Chi sono le Selkie

L’origine del loro nome risale allo scozzese arcaico, a sua volta derivato dall’inglese antico e significa foca.

Le Selkie sono delle creature acquatiche terioformi, cioè che prendono la forma di un animale.

Nella storia delle religioni, il teriomorfismo è l’attribuzione di forma animale a una o più divinità, oppure ad altre entità come spiriti e demoni. Fanno parte di culti antichi e della mitologia.

Molte divinità (un esempio per tutti il pantheon delle divinità dell’antico Egitto) assumono la forma di un animale, oppure hanno il corpo umano e la testa di un animale.

Le Selkie secondo le varie leggende locali, vivono nel mare come foche ma sono in grado di rimuovere il loro manto di foche e tramutarsi in esseri umani, e spesso si trasformavano in donne, qualche  volte anche in uomini.

A volta accadeva che il loro manto fosse rubato da qualcuno, e quindi, erano costrette a rimanere sulla terraferma finché non rientravano in possesso del manto perduto. 

Nelle isole scozzesi c’era una certa riluttanza a uccidere le foche, poiché si credeva che fossero esseri umani trasmutati e ucciderle avrebbe significato attirarsi la sfortuna.

Quasi tutte le leggende sulle Selkie ruotano su personaggi femminili cui è rubato il manto e si trovano quindi costrette a rimanere sul posto.

Infatti, per le Selkies, il manto è necessario per riprendere la forma animale di foca e ritornare in acqua.

Una leggenda di Unst, un’isola della Scozia nord-orientale, facente parte dell’arcipelago delle Isole Shetland e situata tra l’oceano Atlantico e il mare del Nord, narra che un giovane pescatore vide delle persone che danzavano in spiaggia: erano Selkie. 

Tornando a casa trovò una bellissima pelle di foca e la portò con sé, era il manto di una selkie, la quale accortasi della sparizione del suo manto andò a bussare alla porta di casa del giovane.

Il pescatore ammaliato dalla sua bellezza le chiese di sposarlo e la selkie accettò; naturalmente il pescatore si guardò bene dal restituire alla selkie il suo mando di foca.

La coppia visse felice ed ebbe dei bambini ma un giorno uno dei figli trovò la pelle di foca della madre e allora lei finalmente ritornò a casa sua nell’oceano.

Non di rado chi sposava le Selkie rimaneva solo e abbandonato anche con figli, una volta che la selkie, bloccata sulla terraferma, ritrovava finalmente il suo manto.

Secondo altre leggende i maschi selkie avevano il potere di scatenare le tempeste e far naufragare le navi e, durante l’alta marea, era possibile attirarli versando sette lacrime in mare.

Selkie e arti figurative 

Diversi artisti contemporanei, tra cui grafici, illustratori, pittori e scultori che vivono nei luoghi dove le leggende delle Selkie sono conosciute e fanno parte della cultura locale, hanno dedicato delle opere a quest’antico mito.

Sono molto belle le illustrazioni sulle Selkie dell’artista Julie Dillon, un’illustratrice americana specializzata nel fantasy e nella fantascienza.

Uno scultore scozzese di nome David Powell ,ha creato una Selkie utilizzando rami di salice e metallo e si può vedere quest’opera in Scozia a Culzean Castle, un castello situato nel villaggio scozzese di Culzean, nei dintorni di Maybole, nell’Ayrshire  meridionale (Scozia sud-occidentale).

L’artista ha creato 15 statue in salice e metallo, tutte esposte a Culzean Castle, nell’ambito della Mostra dedicata alle acque e coste.

Sono statue raffiguranti figure mitiche e reali, del mare e dell’acqua.

By Rosa Maria Garofalo




LE TRE PARCHE 

Le tre Parche, divinità della mitologia romana, decidevano il destino degli uomini e degli Dei. 

Le Parche, assimilabili alle Moire greche erano importanti divinità del Pantheon romano.

Esse decidevano, in modo inappellabile, del destino di uomini e Dei.

Chi erano le Tre Parche

Le tre Parche erano figlie di Giove e di Temi la Giustizia, esse stabilivano il destino degli uomini e delle divinità in maniera definitiva e irrevocabile.

Perfino Giove (Zeus per i greci) era sottoposto alle Parche.

Nell’arte antica e in poesia erano raffigurate come vecchie tessitrici scorbutiche o come oscure fanciulle, in un secondo momento furono assimilate alle Moire greche, quest’ultime rappresentate di solito come tre donne molto anziane.

I loro nomi erano Clòto, Làchesi e Àtropo.

Conosciamole più da vicino e scopriamo il significato dei loro nomi.

La più giovane delle tre sorelle era Clòto, detta la Filatrice; era associata alla nascita ed era colei che filava lo stame o conocchia o rocca della vita.

Lo stame in tessitura ha lo stesso significato di ordito, più genericamente il filo che è filato.

Clòto, quindi, alla nascita dell’individuo filava il filo della vita.

La seconda sorella in ordine di età era Làchesi, il cui significato del nome era colei che assegna la sorte.

Essa dispensava i destini degli uomini e assegnava anche la durata della vita.

E’ raffigurata mentre tende il filo perché era colei che dispensava i destini degli uomini stabilendo anche la lunghezza della vita; un filo lungo raffigurava una lunga vita, mentre un filo corto, un’esistenza più breve.

La terza sorella Àtropo, la più anziana delle tre, era anche la più temuta, era colei che con una cesoia o forbice in mano, decideva quando il filo avvolto sulla rocca da Clòto e filato da Làchesi, doveva essere tagliato per decretare la morte di un individuo.

Il suo nome significava in nessun modo, l’immutabile, l’inevitabile.

Era inflessibile e rappresentava il destino finale di ogni essere umano.

Nel Foro di Roma, anticamente, vi erano tre statue  dedicate alle Parche, chiamate i Tre Destini o Tria Fata.

Infatti, le Parche erano anche chiamate Fatae, cioè  coloro che presiedono al Fato.

Etimologicamente, il sostantivo fata deriva dal nome latino Fatae dato alle Parche.

Influenza del mito in Storia dell’Arte

A Firenze nella splendida Galleria Palatina di Palazzo Pitti si trova un enigmatico quadro del 1550 circa intitolato Le tre Parche di Francesco de’ Rossi detto il Salviati, un importante pittore del Manierismo italiano.

Il dipinto a olio rappresenta tre donne anziane in piedi e in una stretta composizione, due di esse risaltano in primo piano, mentre una terza è seminascosta nell’ombra.

Ciascuna di esse è riconoscibile da un attributo: Clòto seminascosta nell’ombra e sfocata rispetto alle altre sorelle, ha in mano la conocchia o rocca.

Làchesi in posizione centrale, fila il filo che proviene dalla rocca, e Atropo è in atto di tagliare con le forbici il filo.

I volti delle tre sorelle sono simili e hanno una fisionomia stregonesca tutte e tre.

Lo sguardo freddo di Atropo è reso dal pittore con cruda realtà e guardandola un brivido corre lungo la schiena.

Altri pittori si sono cimentati in questo soggetto mitologico, tra cui il grande pittore Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, e il pittore di Arte Moderna Emilio Notte.

Il grande quadro Le Tre Parche del Sodoma si può ammirare a Roma a Palazzo Barberini, mentre il quadro di Emilio Notte fa parte di una collezione privata.

By Rosa Maria Garofalo




POMONA

Pomona, antichissima divinità italica dell’ulivo, della vite e dei frutti

Pomona è la dea romana dell’ulivo, della vite e dei frutti.

Artisti di ogni tempo le hanno dedicato delle splendide opere d’arte.

La mitologia di Pomona

Il nome della dea deriva dal termine latino pomum “frutto”e le era dedicato un bosco sacro chiamato Pomonal, situato a sud della Via Ostiense, un’antica strada romana che portava da Roma a Ostia.

Il culto di Pomona aveva i suoi sacerdoti detti Flamen Pomonalis e sicuramente anche un tempio.

Generalmente è rappresentata come una giovane donna attraente che accoglie i frutti nel lembo della sua veste, o che regge un cesto di frutta, oppure una cornucopia.

La cornucopia era anticamente un vaso a forma di corno, riempito di frutti e coronato d’erbe e di fiori, simbolo della prosperità e della fertilità, attributo iconografico delle divinità dispensatrici dei beni della terra, come appunto Pomona.

Il mito di Pomona s’incrocia al culto del dio Vertumno degli Etruschi poiché divenne il suo sposo.

Quando gli Etruschi furono sottomessi al dominio romano, fu assorbita anche la loro mitologia.

La storia d’amore di Pomona e Vertumno è alquanto singolare, il dio etrusco escogitò uno stratagemma per averla in moglie, infatti, la dea era corteggiata da molti dei e non ne voleva sapere di avere un partner.

La love story di Pomona e Vertumno

Vertumno aveva il potere di mutarsi in ciò che voleva, era un mutaforma

Si trasformò dunque in una donna molto anziana per avvicinare tranquillamente la dea Pomona e conquistarne la fiducia. 

L’anziana donna osservando il bellissimo giardino della dea, le disse che la vite, se non si fosse allacciata al maestoso olmo del giardino, sarebbe rimasta per terra, e il tronco dell’albero senza l’abbraccio della vite era spoglio.

L’olmo era un simbolo di Vertumno e la vite raffigurava Pomona, quindi con quest’allegoria il dio intendeva spiegare alla giovane, restia a sposarsi, che se avesse accettato di unirsi in nozze con un degno giovane, da tale unione avrebbero beneficato entrambi.
A questo punto egli si trasformò in se stesso e Pomona, vedendo la bellezza sfolgorante del giovane dio fu affascinata dal suo aspetto e dalle parole dette poco prima, e così si unì con lui in matrimonio.

Influenza di Pomona in Storia dell’arte

Moltissimi artisti hanno dedicato opere al mito di Pomona fin dai tempi più antichi.

Il grande Tiziano Vecelio dedicò un quadro a Pomona, il famoso “Fanciulla con vassoio di frutta “ del 1555, oggi esposto al Museo Statale di Berlino.

Un affresco raffigurante Pomona si trova nella villa rinascimentale dei Medici a Poggio a Caiano, opera del Pontormo.

Dal Rinascimento in poi, molteplici artisti hanno dedicato opere al mito di Pomona e alla sua storia d’amore con Vertumno tra cui: Francesco Melzi, allievo di Leonardo con uno splendido quadro dal titolo “Vertumno e Pomona”.

L’elenco continua con artisti del calibro di Antoine Watteau, Nicolas Fouché e molti altri.

I grandi miti greci e romani sono intramontabili, sono una delle basi della nostra cultura occidentale.

By Rosa Maria Garofalo




MEDUSA

Medusa, un personaggio immaginario della mitologia classica

Medusa, una delle tre Gorgoni, un personaggio mitologico dell’antica Grecia che ha influenzato l’arte, come del resto la gran parte dei miti classici greci e romani.

Chi era Medusa

Per un turista che visita Firenze, è quasi un obbligo passare per la splendida Piazza della Signoria e, nella Loggia dei Lanzi, ammirare un capolavoro dell’arte rinascimentale: la statua del Perseo con la testa di Medusa, una scultura del celebre Benvenuto Cellini.

A questo punto è logico domandarsi: chi era Medusa e come mai ha influenzato cosi tanto l’arte figurativa, giacché altri celebri artisti, come il Caravaggio, Rubens, e Bernini hanno rappresentato la Gorgone?

Medusa era una delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forchi e di Ceto, un mostro marino.

Le tre sorelle avevano ali d’oro, mani di bronzo e serpenti per capelli.

Vivevano nell’estremo Occidente e i loro nomi erano Steno, Euriale e Medusa, quest’ultima l’unica a essere mortale fra le tre sorelle.

Lo sguardo di Medusa pietrificava chi osava guardarla negli occhi fissandola e fu il mitico eroe Perseo a ucciderla recidendone la testa.

Morte di Medusa

Il re Polidette di Serifo, una delle isole delle Cicladi, affidò l’incarico a Perseo di uccidere Medusa, in modo da tenere impegnato l’eroe in un’impresa impossibile e avere il campo libero per sposarne la madre, la principessa Danae.

Lo stesso Perseo era un semidio, poiché suo padre era Zeus in persona.

Perseo andò dalle Graie, togliendo loro l’unico occhio e il dente che possedevano in comune, affinché messe alle strette, le Graie non gli indicassero la strada per andare nello Stige, la dimora delle ninfe acquatiche.

Le ninfe gli donarono i sandali alati e una sacca o zaino, oltre all’elmo dell’invisibilità del dio Ade; il dio Hermes (Mercurio per i romani) donò all’eroe un falcetto adamantino.

Secondo altre versione del mito, la dea Atena condusse Perseo a Samo, dove la dea stessa addestrò Perseo a riconoscere Medusa fra le sue sorelle e gli regalò uno scudo lucido come uno specchio.

Perseo si diresse nel luogo, dove vivevano le Gorgoni, chiamato paese degli Iperborei per scovare Medusa e ucciderla.

Servendosi dello scudo donatogli da Atena e con l’elmo dell’invisibilità in testa, Perseo camminando all’indietro per non guardare direttamente in viso l’orrida Gorgone ed esserne pietrificato, riuscì a decapitare Medusa mentre dormiva utilizzando il falcetto adamantino del dio Hermes.

Dal collo reciso di Medusa, sgorgarono il mitico cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore.

La testa di Medusa, insaccata nella magica sacca delle ninfe, fu regalata da Perseo alla dea Atena, che la pose sul suo scudo o egida per terrorizzare e pietrificare i propri nemici.

Il mito di Medusa in Storia dell’Arte

In pieno Umanesimo e Rinascimento, furono riscoperti i classici latini e greci, tra cui il libro Le Metamorfosi di Ovidio.

Questo libro, che narrava i miti della mitologia greca e romana, fu un’immensa fonte d’ispirazione per letterati e artisti.

I committenti delle opere d’arte, decidevano i soggetti delle opere da affidare agli artisti, sia pittori, sia scultori, che di conseguenza in base al loro estro, talento e capacità artistiche, raffigurarono il mito di Medusa.

Oltre alla già citata opera del Cellini visibile a Firenze, un altro scultore si cimentò nel rappresentare Medusa con un busto: il grande Lorenzo Bernini.

Questo busto si può ammirare ai Musei Capitolini di Roma.

Il geniale Caravaggio ricevette invece l’incarico di dipingere la testa di Medusa su uno scudo dal cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte, ambasciatore a Roma del Granduca di Toscana, che poi lo diede in regalo al granduca Ferdinando I De’ Medici.   

Quest’opera è visibile a Firenze nel Museo degli Uffizi.

Anche il grande Rubens raffigura la testa mozzata di Medusa in un dipinto che si può ammirare a Vienna al Kunsthistorisches Museum.

By Rosa Maria Garofalo